Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.
Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.
In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.
Foto da cartella stampa
Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?
È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.
Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti.
Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro.
L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.
Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso.
Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?
La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti.
Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro.
È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria.
La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?
Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.
Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.
Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa.
Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?
In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte.
È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa.
Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.
Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse.
Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori.
Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival?
La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.
Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico.
Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.
C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?
Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.
Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?
Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza.
Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace.
Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.
In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali.
Il Torino Jazz Festival torna nel 2025 con la sua XIII edizione, portando con sé tutta l’energia del jazz live nelle sue forme più varie, promuovendo nuovamente l’idea originale, come ha ricordato in conferenza stampa il sindaco Lorusso, del compianto ex assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe. Sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, il festival si svolgerà dal 23 al 30 aprile, anticipato da un’anteprima diffusa nei jazz club torinesi dal 15 al 22 aprile. Quest’anno, il tema scelto è un invito chiaro e potente: “Libera la musica” un’esortazione a superare i confini dei generi e a lasciar fluire le contaminazioni, oltre che a ricondurci alla mente l’80° anniversario della Liberazione.
Una città che risuona di jazz
Otto giorni di programmazione, 71 concerti, 289 artisti e 58 luoghi sparsi per Torino: il TJF 2025 non ha un centro, ma si espande ovunque, dalle sale prestigiose come l’Auditorium Giovanni Agnelli e il Teatro Colosseo ai club indipendenti come l’Hiroshima Mon Amour e il Magazzino sul Po. Ogni parte della città fa da palco per gli artisti, ponendo una forte attenzione ai giovani che per il direttore artistico devono avere il loro spazio nei main stage «per dar loro stessa dignità, stesso spazio e stessa importanza», sottolineando a proposito che «solitamente, purtroppo, i giovani hanno il loro palco separato, il loro ghetto».
Il festival si articola in diverse sezioni: i Main Events, con artisti di calibro internazionale, e il Jazz Cl(h)ub, che anima i 19 club coinvolti sul territorio di Torino attraverso 26 concerti. E poi ci sono le incursioni urbane dei Jazz Blitz, tanto desiderati e promossi da Zenni, che portano la musica là dove spesso la musica non riesce ad arrivare: scuole, ospedali, case circondariali, carceri. Altri incontri interessanti sono i Jazz Talks, che offrono spazio a dialoghi e riflessioni in collaborazione con il Salone OFF.
Foto da cartella stampa
Voci, strumenti e incontri
Il TJF 2025 apre il sipario il 23 aprile al Teatro Juvarra con uno spettacolo che intreccia poesia e ritmo: Domenico Brancale e Roberto Dani daranno vita a un dialogo tra parola e percussione. La stessa sera, al Teatro Colosseo, Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five saranno protagonisti di un’esibizione che sarà accompagnata dalla consegna al trombettista torinese della targa Torri Palatine della Città di Torino, un riconoscimento alla sua carriera internazionale e al legame con la scena jazz locale.
Il cartellone prosegue con i Calibro 35 e il loro progetto Jazzploitation (24 aprile), un tuffo nelle colonne sonore italiane della golden age, e con Vijay Iyer, che il 25 aprile porterà sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi il suo Piano Solo. Il 28 aprile sarà la volta del Koro Almost BrassQuintet, che rileggerà Kurt Weill in Lonely House. Gran finale il 30 aprile con Il Big Bang del Jazz di Jason Moran e la TJF All Stars: un viaggio musicale che rievoca la storia di James Reese Europe e degli Harlem Hellfighters, rimescolando blues, ragtime e sonorità contemporanee.
25 Aprile a tutto ballo
Il TJF non dimentica le sue radici. Il 25 aprile, in occasione dell’80º anniversario della Liberazione, si terràIl ballo della Liberazione al MAUTO: un duello musicale tra le big band di Gianpaolo Petrini e Valerio Signetto, richiamando le sfide swing dell’Harlem degli anni ’30.
Ma il festival guarda anche avanti, sostenendo la candidatura di Torino a Capitale Europea della Cultura 2033 con eventi come il Jang Bang Sextet “Alighting” all’Hiroshima Mon Amour, una produzione originale TJF che unisce tradizione e sperimentazione.
Vivi il TJF 2025
Il segretario generale della Fondazione per la Cultura Torino, Alessandro Isaia, ci tiene a premere sul valore inclusivo del festival, che traspare dal costo contenuto dei biglietti e dai numerosi eventi gratuiti. Biglietti che saranno disponibili dall’11 marzo su torinojazzfestival.it. Inoltre per i nati dal 2011, ogni concerto costerà solo 1 euro. Sarà possibile acquistarli anche direttamente nei luoghi degli spettacoli, fino a esaurimento posti.
Stefano Zenni, in conclusione, invita a tuffarsi di testa nella ricchezza del programma, tenendo presente che il jazz non è solo uno, ma ce ne sono mille, e a Torino questi “mille” saranno tutti presenti.
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Torino Jazz Festival, dodicesima edizione: è il 21 aprile, la rassegna è stata inaugurata da un solo giorno e la polistrumentista abruzzese Valeria Sturba porta la sua musica al piccolo teatro del Castello di Rivoli. L’orario mattutino – sono passate da poco le 11:30 di una ventosa domenica – non ha scoraggiato il pubblico, per lo più non giovanissimo, che è riuscito a gremire la platea. Sul palco svettano da un lato un theremin, dall’altro un vero e proprio piano di lavoro, che lascia intravedere una strumentazione elettronica (tastiere e sequencer), un maialino giallo di gomma, un campanello e altri giocattoli. Manca poco allo one-woman show.
Valeria Sturba al Torino Jazz Festival. Foto: Alessia Sabetta
La musicista sale in cattedra in un vestito variopinto, dopo una breve introduzione del direttore artistico Stefano Zenni. Tra le sue mani appare un violino elettrico blu: è una loop station a catturarne le note pizzicate, a cui si vanno ad addensare quelle del theremin e successivamente la voce. Il nome del progetto, “La musica diSturba”, denota la voglia di rivisitare le sonorità tradizionali – provenienti della musica classica, colta e popolare – in un riassemblaggio creativo e del tutto personale. “Little Big Move” è il primo brano, ispirato (e mutuato) dal violoncellista jazz Tristan Honsinger, in cui viene sviluppato con intensità sempre crescente l’iniziale riff di violino. Le suggestioni cinematografiche e teatrali saltano presto all’orecchio.
Sempre scritto da Honsinger è il secondo pezzo, “Avevo Paura”, nel quale l’elettronica restituisce echi psicologici: la voce vola libera tra le ottave, si contorce, si produce in suoni e citazioni stranianti («Ho tante noci di cocco splendide»), mentre il sottofondo stride e inquieta. È poi il turno di una composizione propria, “Shake My Brain”, brano dai ritmi incalzanti e vagamente funk: al microfono compare anche il maialino di gomma (featuring un polletto dello stesso materiale), menzionato addirittura come coautore. Il gioco, di e con i suoni, sembra farla da padrone, soprattutto nella prima parte dello show.
È un crescendo di sperimentazioni ludiche e musicali. La scaletta procede con “Epiloghi”, pezzo le cui melodie utilizzano un’interessante scala di quarti di tono, per poi passare a un omaggio alla Sinfonia n. 4 di Tchaikovskij; in mezzo, c’è spazio anche per alcuni brani folk. Per questi ultimi prevalgono atmosfere intimiste – spesso con la sola voce più le corde del violino, pizzicate dolcemente, quasi volesse suonare un’arpa – ad accompagnare prima un testo popolare abruzzese, poi una composizione armena tratta dalle “Folk Songs” di Luciano Berio, “Loosin Yelav”. Di simile estrazione è anche l’ultimissimo brano suonato dall’artista, dopo essersi congedata dal pubblico e aver cambiato repentinamente idea:“Mi votu e mi rivotu”, a firma della cantautrice siciliana Rosa Balistreri. Tre quarti d’ora sono volati.
L’artista con i suoi giocattoli. Foto: Alessia Sabetta
Dopo la musica, c’è ancora tempo per una conversazione amichevole con Zenni e col pubblico: Sturba, che si occupa tra le altre cose di accompagnamenti per il teatro e di sonorizzazione di film muti, parla del rapporto tra la sua opera e il cinema (cita l’influenza di registi quali Fellini e Kaurismäki, nonché del compositore Nino Rota), del suo legame con Honsinger (scomparso di recente), della genesi dei suoi brani, della fascinazione per le tastiere anni ’80 e della sua singolare ricerca sonora: «Mi accorgo subito di quando un giocattolo può diventare uno strumento».
Entusiasmo e originalità pulsano dunque nella produzione della giovane compositrice, così come nell’intera esibizione; la sua è una presenza scenica essenziale, non esuberante di per sé, che lascia volentieri il campo alla forza e all’ecletticità dei contenuti. Il Torino Jazz Festival, nella dimora dell’arte contemporanea, ospita l’artista giusta, nel luogo giusto, al momento giusto.
Il foyer del teatro Colosseo nella serata del 23 aprile raccoglie tutta la gente che cerca riparo dall’acquazzone quasi improvviso in attesa del concerto di Christian McBride che, durante l’esibizione, tiene a sottolineare che la pioggia è una costante delle sue esibizioni torinesi raccontando che anche i suoi passaggi in città nel 1990 e 1994 erano stati nel segno del maltempo.
Sul palco, il contrabbassista si prende il centro della scena rimanendo in seconda fila, allineato con Mike Kings alle tastiere e Savanna Harris alla batteria; davanti, disposti a scacchiera, ci sono Nicole Glover al sax tenore e Ely Perlman alla chitarra elettrica. Questa la formazione della serata.
Savanna Harris – foto di Ottavia Salvadori
Le aspettative riguardo al concerto sono alte: annunciato tra i main della line up del TJF, McBride è considerato tra i jazzisti più importanti della sua generazione, oltre che essere uno dei più attivi (se non bastasse il fatto che ha vinto ben otto Grammy, tra le altre cose è anche direttore artistico del Newport Jazz Festival). L’attesa è stata ripagata.
Capire di essere di fronte a dei maestri assoluti del proprio strumento non è difficile, anche se non si è grandissimi estimatori del genere e McBride non prova in nessun modo a nasconderlo. Nel corso della serata si alterna, quasi divincola, tra basso elettrico e contrabbasso con un tocco forsennato ma sempre leggerissimo. Pur non volendo scomodare troppo Aristotele, viene immediato parlare di catarsi: il suo approccio con gli strumenti è catartico perché sembra essere lì solo per liberare la sua anima per conto della musica. Allo stesso tempo è una catarsi per gli spettatori che sembrano stregati dall’esibizione: nessuno ha il coraggio di muoversi durante e, a parte gli applausi tra un assolo e l’altro, il resto del tempo nella platea regna il silenzio.
Christian McBride al contrabbasso, Ely Perlman alla chitarra – foto di Ottavia Salvadori
La scaletta prevede pochi brani (un po’ meno di dieci) per le quasi due ore di concerto, tutti molto lunghi e strutturati quasi sempre in tre parti: una parte iniziale con l’esposizione dei temi, un momento centrale di improvvisazione e la ripresa conclusiva. Alcuni di questi sono stati composti dai musicisti della band (come “More is” di Savanna Harris o “Elevation” di Ely Perlman), altri invece dallo stesso Mc Bride come “A morning story”, o standard come “Dolphine Dance”, riarrangiata da Mike Kings. Se è scontato riferire della bravura dei musicisti sul palco, una cosa degna di nota è il supporto reciproco durante o al termine dei rispettivi assoli: McBride per primo sorride o contorce il viso in espressioni di stupore e approvazione per la performance dei suoi compagni.
Il rischio, in questi casi, è di risultare troppo tecnici e ricadere in incastri armonici e passaggi perfettamente eseguiti, ma poveri emotivamente. Mc Bride e i suoi compagni, invece, riescono a fare sfoggio di virtuosismo ma anche a far trasparire le emozioni che stanno provando e che vogliono far arrivare al pubblico.
A fine concerto nella sala del teatro rimane il silenzio di quando bisogna metabolizzare quello a cui si è appena assistito e la promessa, da parte di McBride, di tornare presto a Torino – con o senza la pioggia.
Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.
Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.
Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.
Stefano Bollani, foto di Fiorenza Gherardi De Candei
Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).
Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.
Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.
La Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO conclude l’XI edizione del TJF2023
Stefano Bollani Danish Trio
Da diversi anni, il 30 aprile, si festeggia la giornata dedicata al Jazz per i suoi valori di inclusività e comunicazione tra culture; al Torino Jazz Festival lo si celebra con un triplo appuntamento al Lingotto, con la marching band della Jazz School di Torino in apertura.
Nonostante non suonino da un po’ di tempo, fin da subito si percepisce come i tre siano ben amalgamati: suonano, giocano e si divertono e, consapevoli di non essere chiusi in una sala prove, lanciano continuamente segnali al pubblico tra una citazione e una battuta.
Jesper Bodilsen, foto di Alessandro Bosio
Bollani balla, si snoda sul pianoforte, alza la gamba, il tutto con un’eleganza che farebbe quasi invidia a Keith Jarrett. Bodilsen fraseggia delicatamente, mai invadente, cantando le note insieme al contrabbasso. Lund dal canto suo trasforma anche il leggio in una parte della batteria e accompagna con il suo tocco leggerissimo, che mantiene, senza mai esagerare con il volume, anche durante i suoi soli. Tutti e tre in realtà suonano delicatamente, come accarezzando le orecchie degli ascoltatori e arrivando a livelli di quasi silenzio. Inoltre suonano per puro divertimento (e non per mero virtuosismo), ed è comprensibile dalle risate e dagli sguardi. Il punto di riferimento di pensiero del trio è il pianista Ahmad Jamal, scomparso lo scorso 16 aprile, a cui hanno dedicato il concerto e l’intera la giornata .
Morten Lund, foto di Alessandro Bosio
Il repertorio include qualche inedito, qualche brano proveniente dagli album registrati insieme dal trio, fino a “Legata ad uno scoglio” come omaggio a Lelio Luttazzi, con la voce di Bollani (che scherzosamente sostituisce nel testo della canzone il nome di “Bevilacqua Vinicio” con quello di Capossela).
Eve Risser & Red Desert Orchestra – “Eurythmia”
Terminato il concerto ci si sposta nella Sala 500, dove è previsto l’appuntamento con Eve Risser insieme alla Red Desert Orchestra.
Il progetto vede la pianista francese guidare una nuova formazione di musicisti europei e africani residenti in Francia, «mescolando musica africana, minimalismo e jazz» – citando il direttore artistico Stefano Zenni.
Eve Risser e Nils Ostendorf, foto di Alessandro Bosio
Dopo aver richiamato il paesaggio sonoro di un deserto attraversato dal vento, l’atmosfera diventa suggestiva grazie a un amalgama di strumenti “jazz” (tra cui batteria, chitarra elettrica, basso e fiati) con strumenti di tradizione africana quali djembe e due balafon, xilofono tipico dell’Africa Occidentale sub-sahariana. La sezione ritmica procede su ritmi sostenuti, in particolare su quelli conosciuti come afrocuban. Spicca su tutti il djembe, che – al centro dell’orchestra – ne diventa quasi lo strumento principe con i suoi ostinati ritmici.
Eve Risser & Red Desert Orchestra, foto di Alessandro Bosio
Verso metà concerto, Risser presenta i musicisti e, provando a descrivere i brani suonati senza soluzione di continuità, intenerisce la sala spiegando con qualche difficoltà linguistica «the first piece is about horses, the second is about snakes», rimpiangendo di non essersi preparata qualcosa in più da dire sulle composizioni. Con l’ultimo brano sull’amore, il gruppo riesce a strappare un rapido bis al pubblico, invitato a mettersi in piedi a ballare e scatenarsi, anche se è già ora di scappare all’appuntamento successivo.
«Grazie per averli portati qui!» urla qualcuno a Zenni, facendo scoppiare un fragoroso applauso degli spettatori infiammati dall’aria di festa.
La vigilia della Festa della Liberazione vede la città assorbita nell’undicesima edizione di un Festival ricco di musicisti e proposte culturali; clima e temperatura sono in linea con le medie stagionali, l’ora è quella dell’aperitivo – le 18 in punto – e al Teatro Vittoria di via Gramsci va in scena il frutto del sodalizio artistico tra il noto clarinettista lionese Louis Sclavis e la contrabbassista e compositrice romana Federica Michisanti, accompagnata dal violoncello di Salvatore Maiore e dalla batteria di Emanuele Maniscalco.
La collaborazione tra i due artisti è del tutto inedita, così come la formazione del quartetto. L’età media del pubblico non è delle più giovani, e i ragazzi presenti sono pochi, ma non mancano certo; si ha la sensazione di trovarsi attorniati da ascoltatori appassionati del genere, nonostante la grande presa esercitata dalla manifestazione anche su semplici curiosi e onnivori musicali.
Louis Sclavis. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival
Michisanti coglie qui l’occasione per presentare il suo nuovo progetto, del quale introduce i brani intervallandoli a brevi “note d’autore” riguardo le ispirazioni che hanno dato loro vita. La musicista modella una commistione tra jazz “classico” e influssi più eterogenei, derivati soprattutto dalla musica classica contemporanea. I due brani di apertura (il titolo del primo è “Two”, mentre quello del secondo è ancora da definire, anche se avrà a che fare con l’ambiente in cui è stato composto – una mansarda), eseguiti senza presentazione, danno da subito l’idea di un incastro efficace: l’intesa tra gli artisti è palpabile, e nell’insieme si può ben cogliere la sensibilità propria di ciascun elemento. Le linee melodiche sono affidate soprattutto a Sclavis, che alterna clarinetto e clarinetto basso, e a Michisanti, con il suo contrabbasso spesso caratterizzato da fraseggi rapidi e guizzanti.
Federica Michisanti. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival
Diverso spazio è concesso anche a parti improvvisative più o meno larghe, in cui risalta il frizzante drumming di Maniscalco. Quest’ultimo si destreggia tra bacchette, spazzole e mazzuole, con uno stile originale; la batteria presenta un kit abbastanza essenziale, dal quale scaturiscono fantasiose sezioni ritmiche (e poliritmiche). E forse è con il violoncello di Maiore che si apprezzano maggiormente gli accenti di musica contemporanea; le sonorità tipiche dello strumento vengono infatti alternate a pratiche non convenzionali, come l’utilizzo dell’archetto tra ponticello e cordiera – che genera un suono stridente, smorzato – o addirittura un approccio percussivo sulle corde.
Salvatore Maiore. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival
Una componente evocativa è imprescindibile per l’opera di Michisanti, che intitola uno dei suoi brani “B4PM”, ovvero “Prima delle quattro [del pomeriggio]”, con riferimento a una “luce particolare” percepita nel suddetto orario della giornata; da menzionare anche “Floathing”, una sorta di neologismo inglese dedicato a una composizione che “cambia continuamente il suo centro tonale”. Proprio durante “B4PM” Sclavis si produce in un lungo assolo col quale, sfoggiando la sua esperienza e il suo talento, strappa un applauso spontaneo ai presenti.
Emanuele Maniscalco. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz FestivalFederica Michisanti Trio. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival
Dopo essersi assentati per pochi secondi dal palco e avere eseguito un ultimo pezzo, gli artisti si congedano dal pubblico con ripetuti inchini, chiudendo un’ora abbondante di concerto. Un jazz che lascia in chi ascolta il sentore di un lavoro profondo, intimo, condotto con l’amore di chi in questa musica sente la propria casa.
I festival, com’è noto, sono anche occasioni per creare esperimenti con produzioni originali che possono avere molteplici esiti. Nel caso del Torino Jazz Festival, la terza serata ha visto la composizione di un trio, si potrebbe dire, inusuale: il sassofonista inglese Shabaka Hutchings, il cantante e suonatore di guembri marocchino Majid Bekkas e il batterista e percussionista americano Hamid Drake.
Shabaka Hutchings, foto di Ottavia Salvadori
Inusuale perché i tre arrivano da background diversi, ma ciò non impedisce loro di trovare un’intesa, rendendo il concerto qualcosa di unico. I suoni emessi dal guembri – strumento tipico della musica degli Gnawa, gruppo etnico che discende dagli schiavi neri deportati nella zona sahariana – di Bekkas sono in un registro medio (tra chitarra e basso, leggermente più ovattato), tale da permettergli di essere il centro portante della performance. Bekkas suona dei riff che si ripetono, su cui canta la stessa melodia, ed è il perno su cui far avvicendare le personalità di Drake e Hutchings, con il loro arsenale di strumenti. Certi riff si sposano perfettamente con alcune delle sonorità afroamericane e afrocubane che il batterista porta avanti tra ritmi funk e tribali, trasformando la batteria in una sintesi di percussioni che spinge il pubblico a ballare. Dal canto suo, Shabaka improvvisa in un linguaggio abbastanza riconoscibile di provenienza jazzistica, spezzando le metriche su una poliritmia che si incastra perfettamente negli spazi dei suoni degli altri due. Hutchings, inoltre, cambia costantemente atmosfera passando dal sassofono ad altri strumenti a fiato di tradizione africana e nativo americana.
Majid Bekkas, foto di Ottavia Salvadori
Il momento più suggestivo della serata accade quando Hamid Drake si siede di fronte al pubblico e, suonando un tamburo a cornice e battendo i piedi nudi per terra, accompagna Shabaka Hutchings e il suo flauto doppio. Il pubblico ascolta con religioso silenzio il momento sacrale che si sta creando e al brano successivo si accoda anche Majid Bekkas, con una kalimba che suona con virtuosismo.
Hamid Drake, foto di Ottavia Salvadori
L’improvvisazione è il principio su cui si fonda tale esperimento: accostando la potenza prorompente di Drake e il fraseggio scomposto di Hutchings, entrambi guidati da Bekkas. In una serata che ha dato l’impressione di essere una jam session tra figure divergenti, il pubblico non ha fatto altro che ballare dall’inizio alla fine.
La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival
Sold out per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.
Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori
Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.
Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori
Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.
A cura di Luca Lops
Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori
La webzine musicale del DAMS di Torino
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