Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live.
Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce).
La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo.
Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria.
I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato.
Foto di Ottavia Salvadori
Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi.
Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni.
La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori.
Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house.
Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).
Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo.
L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin.
Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale.
Foto di Ottavia Salvadori
Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere.
Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo.
Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare.
«Libera la musica» è il tema della tredicesima edizione del Torino Jazz Festival (TJF). Provando a riformularlo, possiamo affermare che la musica libera orizzonti inauditi che percepiamo come esperienze catartiche; ma, considerando quel “libera” un aggettivo, possiamo pensare la musica come fenomeno umano indomabile, senza barriere, se non quelle che decidiamo di imporre o seguire.
A partire da questa seconda accezione cerchiamo di analizzare la produzione originale che TJF ha proposto come primo concerto della giornata inaugurale di mercoledì 23 aprile al Teatro Juvarra. L’evento, in collaborazione con il Salone del Libro, è stato presentato come un dialogo di suoni e silenzi tra la poesia e la voce di Domenico Brancale e la batteria preparata e amplificata di Roberto Dani.
Il primo ha già collaborato in passato con musicisti realizzando lavori con al centro la voce e suoni, spesso registrati, mentre il secondo ritorna al Festival dopo un’esibizione solistica nel 2021, che anche in quel caso ruotava attorno al silenzio, allo spazio e al corpo. Insieme hanno creato una performance dal titolo “Chi sono queste cose”: un incrocio tra reading poetico e improvvisazione musicale.
Foto di Colibrì Vision
Sul palcoscenico già aperto e illuminato di blu vediamo delle orecchie dorate sparse a proscenio, un leggio al centro e la batteria subito dietro. L’ingresso dei due artisti è silenzioso, al buio, nessun applauso, solo una voce registrata che elenca nomi di poeti, pittori, attori e musicisti del passato e le loro date di morte. Lo spazio scenico si riempie di luce calda e Brancale, con voce tonante, recita i versi su uno sfondo sonoro lento e meditativo. Dani si inserisce nelle pause tra un verso e l’altro, cambiando spesso il modo di produrre suoni: con bacchette diverse, piatti di varie dimensioni e oggetti comuni appositamente riadattati. La fusione tra la voce e i suoni delle percussioni è calibrata attentamente, l’amplificazione della batteria è regolata al continuo cambio di timbri, e al tono di Brancale che in alcuni momenti recita sotto voce.
Foto di Colibrì Vision
I due corpi sul palco vibrano in modo diverso: se Brancale, sempre fisso sul posto, ci trasmette passione e adesione al contenuto dei suoi versi attraverso la mimica facciale e alcuni gesti delle mani, Dani sta in piedi, curvato, in continuo movimento tra balzi e scatti frenetici. A dividere in due l’esibizione è un assolo energico di Dani, che riempie la sala di suoni profondi e sempre più ravvicinati, sembra quasi inaspettato dopo la prima parte molto pacata, ma riesce ad aumentare la tensione del concerto e guidarci fino alla conclusione.
Il ritmo si fa quindi incalzante, in un continuo singhiozzo di suoni gravi e acuti, Brancale elenca tutte le azioni e atteggiamenti possibili che compiamo nella nostra vita prima di sgretolarci.
Sta di fatto che anche la musica è uno di questi modi per sopravvivere e nelle conformazioni che può assumere rimane sempre libera e inafferrabile.
Il jazz, spesso etichettato come genere “vecchio” o fuori moda, dimostra di avere ancora molto da dire anche alle nuove generazioni. A testimoniarlo è la serata di giovedì 17 aprile al Blah Blah di Torino, con uno degli eventi gratuiti che anticipano il Torino Jazz Festival.
Appena AleLoi & The Toxic Jazz Factory salgono sul palco del piccolo club, infatti, la sala interna si riempie in un attimo, tanto che per i piú piccoli di statura diventa difficile provare a farsi strada per vedere qualcosa. Il suono degli strumenti si diffonde sotto i portici di via Po e, schiacciati in mezzo alla folla, si percepisce chiaramente una cosa: il jazz non è affatto passato di moda. Anzi, è più vivo che mai.
AleLoi & The Toxic Jazz Factory è un ensemble guidato da Alessandro Loi, bassista e compositore, che porta sul palco del Blah Blah il suo disco d’esordio It Smells Funny,dove il jazz, il blues, il gospel e il funk coesistono, creando un jazz raffinato e moderno allo stesso tempo. Loi è accompagnato da un ensemble musicale composto da Simone Garino ai sassofoni, Alberto Borio al trombone, Nicola Meloni alla tastiera e Giulio Arfinengo alla batteria.
Foto dal profilo Facebook @AleLoi
Le sezioni d’insieme, energiche e coinvolgenti sono intervallate da assoli strumentali che mettono in luce la bravura di tutti i componenti del gruppo. L’uso del basso elettrico fretless a 5 corde garantisce una maggiore flessibilità espressiva, particolarmente evidente nel brano inedito “Last Beer with Friends”, dove il timbro dello strumento viene ulteriormente arricchito da un distorsore.
Nota di merito anche per il sassofonista e il trombonista che, nei momenti collettivi, rivelano con una tale sintonia da far percepire in certi istanti un suono unico, nonostante la notevole differenza timbrica tra i due strumenti.
Il concerto è durato circa un’ora: forse troppo corto per gli appassionati, ma perfetto per chi desidera avvicinarsi al jazz in modo leggero, passando una piacevole serata tra drink, chiacchiere tra amici e buona musica. Un evento piacevole e ben riuscito, che mette il jazz al centro, ma che non ne “impone” l’ascolto attento prolungato.
Al Comala il 16 aprile 2025 si è tenuta la Marmellata Jam, esibizione completamente improvvisata (o quasi). Per l’organizzazione della serata, il collettivo Marmellata Jam ha optato per l’utilizzo di un canale su Telegram, nel quale chi voleva partecipare ha avuto modo di iscriversi per facilitare la ripartizione dei tempi e degli spazi di chi avrebbe improvvisato durante la serata.
L’esibizione era programmata all’esterno ma a causa della pioggia, si è tenuta in una saletta interna.
La serata è stata divisa in due parti: la prima focalizzata sulla lettura di poesie con libero accesso da parte di persone dal pubblico, con sottofondo musicale improvvisato e disegni proiettati realizzati sul momento. Nella seconda parte, è stata privilegiata la parte musicale, sempre con un libero accesso al microfono, all’iPad per disegnare e soprattutto, questa volta, agli strumenti.
Foto di Giulio Santullo
Si sono susseguiti innumerevoli cantanti e strumentisti, da alcuni nomi noti della scena torinese, come la cantante Caterina Ciari degli EDEN4ALL , ai meno conosciuti, i quali hanno sperimentato improvvisando attraversando i generi.
La serata si è conclusa verso mezzanotte ed è stata un grande successo nonostante il nubifragio in corso.
Degna di nota è stata la poesia di Viola Cicoria, la quale ha tenuto sospeso il pubblico:
”Salve. Salve, dunque di quale cifra si tratterebbe? Ah. E per quanto tempo? Dunque, per una settimana? Per una settimana, bene, me lo assicura? Cento milioni per una settimana. Mi assicura, dunque, che la luna si spegnerà per una settimana. Una settimana di luna spenta per cento milioni.
Sì, sì, siamo d’accordo. Sì, proceda pure. Sì, la spenga.
Prima notte di luna spenta: ma perché nessuno ci fa caso? Ha senso che nessuno ci faccia caso. Una volta al mese succede. Soltanto in pochi, in pochissimi, in così pochi nel mondo che li si potrebbe tutti stipare in uno di quegli autobus inglesi rossi a due piani, se ne sono accorti.
Foto di Giulio Santullo
Prima notte di luna spenta, un normale cielo blu (quasi) per tutti.
Seconda notte di luna spenta: qualcuno ci fa caso. Non dovrebbe crescere la luna? Prima o poi, non dovrebbe crescere? No, ma dico, oggi non dovrebbe crescere la luna? E se non crescesse mai più?
[…]
Quarta notte di luna spenta: più di più di qualcuno ci fa caso. È un guaio. Signore, signori, è un guaio. E gli astronauti di che si occuperanno ora? E cos’altro possiamo misurare se non la distanza tra qui e là? Ora che si fa? E chi costruisce i razzi? E chi cuce le tute degli astronauti? E le aste delle bandiere dove verranno piantate? E le foto? E il Paese? Quanto spenderemo per i lampioni? E perché nessuno costruisce astronavi intergalattiche?
[…]
Sesta notte di luna spenta: tutti (o quasi) ci hanno fatto caso. E i misteri? E gli dèi? E Dio? E l’amore? E l’amore, vi prego, l’amore? E le idee? Ma dico, le idee? Sono duemilaquattrocento anni che stanno da un’altra parte, lì, mentre noi le copiamo, non è che di punto in bianco si può fare così. E dove dovrei camminare ora? Con i piedi piantati in terra? Dovrei camminare sulla Terra? E dove dovrei sognare? Come dovrei sognare? A cosa, a chi dovrei dedicare? E dove, come, quando, perché dovrei dedicare ora che la luna è spenta? Quali luoghi dovrei abitare? Dove dovrei vivere? Dove potrei essere? E il mio fine quale sarà?
Settima notte di luna spenta: poveri conigli, son scomparse tutte le loro tane.
Settima notte di luna spenta, il cielo è blu.
E lei ci pensa mai a quante cose abbiamo proiettato lassù?”
Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.
Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.
In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.
Foto da cartella stampa
Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?
È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.
Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti.
Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro.
L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.
Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso.
Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?
La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti.
Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro.
È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria.
La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?
Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.
Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.
Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa.
Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?
In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte.
È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa.
Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.
Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse.
Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori.
Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival?
La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.
Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico.
Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.
C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?
Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.
Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?
Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza.
Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace.
Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.
In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali.
Il Torino Jazz Festival torna nel 2025 con la sua XIII edizione, portando con sé tutta l’energia del jazz live nelle sue forme più varie, promuovendo nuovamente l’idea originale, come ha ricordato in conferenza stampa il sindaco Lorusso, del compianto ex assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe. Sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, il festival si svolgerà dal 23 al 30 aprile, anticipato da un’anteprima diffusa nei jazz club torinesi dal 15 al 22 aprile. Quest’anno, il tema scelto è un invito chiaro e potente: “Libera la musica” un’esortazione a superare i confini dei generi e a lasciar fluire le contaminazioni, oltre che a ricondurci alla mente l’80° anniversario della Liberazione.
Una città che risuona di jazz
Otto giorni di programmazione, 71 concerti, 289 artisti e 58 luoghi sparsi per Torino: il TJF 2025 non ha un centro, ma si espande ovunque, dalle sale prestigiose come l’Auditorium Giovanni Agnelli e il Teatro Colosseo ai club indipendenti come l’Hiroshima Mon Amour e il Magazzino sul Po. Ogni parte della città fa da palco per gli artisti, ponendo una forte attenzione ai giovani che per il direttore artistico devono avere il loro spazio nei main stage «per dar loro stessa dignità, stesso spazio e stessa importanza», sottolineando a proposito che «solitamente, purtroppo, i giovani hanno il loro palco separato, il loro ghetto».
Il festival si articola in diverse sezioni: i Main Events, con artisti di calibro internazionale, e il Jazz Cl(h)ub, che anima i 19 club coinvolti sul territorio di Torino attraverso 26 concerti. E poi ci sono le incursioni urbane dei Jazz Blitz, tanto desiderati e promossi da Zenni, che portano la musica là dove spesso la musica non riesce ad arrivare: scuole, ospedali, case circondariali, carceri. Altri incontri interessanti sono i Jazz Talks, che offrono spazio a dialoghi e riflessioni in collaborazione con il Salone OFF.
Foto da cartella stampa
Voci, strumenti e incontri
Il TJF 2025 apre il sipario il 23 aprile al Teatro Juvarra con uno spettacolo che intreccia poesia e ritmo: Domenico Brancale e Roberto Dani daranno vita a un dialogo tra parola e percussione. La stessa sera, al Teatro Colosseo, Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five saranno protagonisti di un’esibizione che sarà accompagnata dalla consegna al trombettista torinese della targa Torri Palatine della Città di Torino, un riconoscimento alla sua carriera internazionale e al legame con la scena jazz locale.
Il cartellone prosegue con i Calibro 35 e il loro progetto Jazzploitation (24 aprile), un tuffo nelle colonne sonore italiane della golden age, e con Vijay Iyer, che il 25 aprile porterà sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi il suo Piano Solo. Il 28 aprile sarà la volta del Koro Almost BrassQuintet, che rileggerà Kurt Weill in Lonely House. Gran finale il 30 aprile con Il Big Bang del Jazz di Jason Moran e la TJF All Stars: un viaggio musicale che rievoca la storia di James Reese Europe e degli Harlem Hellfighters, rimescolando blues, ragtime e sonorità contemporanee.
25 Aprile a tutto ballo
Il TJF non dimentica le sue radici. Il 25 aprile, in occasione dell’80º anniversario della Liberazione, si terràIl ballo della Liberazione al MAUTO: un duello musicale tra le big band di Gianpaolo Petrini e Valerio Signetto, richiamando le sfide swing dell’Harlem degli anni ’30.
Ma il festival guarda anche avanti, sostenendo la candidatura di Torino a Capitale Europea della Cultura 2033 con eventi come il Jang Bang Sextet “Alighting” all’Hiroshima Mon Amour, una produzione originale TJF che unisce tradizione e sperimentazione.
Vivi il TJF 2025
Il segretario generale della Fondazione per la Cultura Torino, Alessandro Isaia, ci tiene a premere sul valore inclusivo del festival, che traspare dal costo contenuto dei biglietti e dai numerosi eventi gratuiti. Biglietti che saranno disponibili dall’11 marzo su torinojazzfestival.it. Inoltre per i nati dal 2011, ogni concerto costerà solo 1 euro. Sarà possibile acquistarli anche direttamente nei luoghi degli spettacoli, fino a esaurimento posti.
Stefano Zenni, in conclusione, invita a tuffarsi di testa nella ricchezza del programma, tenendo presente che il jazz non è solo uno, ma ce ne sono mille, e a Torino questi “mille” saranno tutti presenti.
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Anche quest’anno, il 30 aprile 2024, si conclude il Torino Jazz Festival nella giornata internazionale UNESCO del jazz. Una giornata significativa non solo per il festival ma per tutta la musica jazz che, nel corso di questi undici giorni, abbiamo imparato ad apprezzare e amare in tutte le sue forme e declinazioni.
Stefano Zenni sul palco dell’auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto ringrazia tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del festival, lavorando con passione e con amore per la musica: dagli autisti, al personale di sala, dallo staff tecnico al pubblico e naturalmente gli artisti… la lista sarebbe lunghissima ma è soprattutto doveroso ricordare e ringraziare tutti coloro che stanno dietro le quinte, non sono visibili e non ricevono gli applausi del pubblico. La musica è un fare che si costruisce insieme, tutto e tutti contribuiscono alla creazione di un evento come questo, un festival dalla portata internazionale che unisce e crea legami.
Sono proprio nuovi legami quelli che ha voluto creare il Torino Jazz Festival per concludere queste giornate musicali, affidando a Paolo Fresu e al suo quintetto, a Paolo Silvestri in qualità di direttore – e non solo – e alla Torino Jazz Orchestra, una produzione originale: un rapporto e un concerto nato proprio dalla collaborazione artistica del festival con gli artisti stessi.
Paolo Fresu Quintet – foto da cartella stampa TJF
Per celebrare i quarant’anni del quintetto e l’uscita del nuovo album contenente tre dischi totalmente improvvisati, Paolo Silvestri − grande compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra che coniuga jazz e musica contemporanea con musiche popolari spaziando da opere sinfoniche a colonne sonore per film passando per composizioni per spettacoli teatrali e di danza − ha accettato la sfida di trascrivere per orchestra alcune parti dei brani improvvisati. Nasce così un dialogo continuo tra orchestra e quintetto, che sembrano due mondi apparentemente separati: l’orchestra con una formazione tradizionale e schierata mentre, sul lato opposto, il quintetto in piedi, libero di muoversi e improvvisare sui suoi stessi brani, ormai divenuti scritti e “riproducibili”.
Dopo aver ascoltato e vissuto sulla propria pelle la carica energica di Mats Gustafsson e i The End la sera prima, il pubblico viene catapultato in un’altra dimensione del jazz: suoni morbidi, mai aggressivi, in cui i vari timbri emergono uno alla volta per poi fondersi in un’unica entità sonora. Una forma di jazz che − se pur colorata da qualche suono più innovativo − resta legata a un lirismo toccante e un gusto narrativo che unisce e alterna dolcezza, malinconia, ritmicità ed energia, rimanendo sempre ben calibrata. Nulla è eccessivo, tutto è in perfetto equilibrio con il resto: la melodia prevale con qualche influenza blues e la tromba di Fresu trasporta la mente degli spettatori in alcuni film degli anni ’50, per poi riportarli alla realtà con qualche tema più inquietante e “minaccioso”.
Paolo Silvestri – foto da cartella stampa TJF
Quasi come se ad oggi fosse un obbligo per apparire “al passo con i tempi”, Fresu utilizza effetti di distorsione del suono e di eco che lasciano nell’aria il ricordo di ciò che si è ascoltato. Cosciente probabilmente del fatto che le sue composizioni sono già ricche e complete semplicemente con i suoni acustici degli strumenti, il trombettista utilizza con parsimonia l’elettronica che non risulta mai essere preponderante. Non utilizzare questi effetti non avrebbe tolto nulla all’esecuzione, probabilmente, invece, le avrebbe donato una maggiore aura “paradisiaca”, di “purezza” e leggerezza.
Come bis il quintetto ha suonato “Sono andati?” dalla Bohème di Puccini – brano nostalgico e romantico – seguito da un brano di Alice Cooper, “Only Women Bleed”– il più energico della serata – nella versione jazz di Carmen McRae.
Un concerto che, anche se non ha avuto lo stesso successo di quello di Zorn (probabilmente perché la componente ritmica, che fa muovere il pubblico, è stata messa da parte per lasciare spazio al lirismo melodico), ha comunque concluso il festival mantenendo alto il livello artistico.
Il pubblico si sta forse abituando a nuove sonorità? O forse il festival ha insegnato a comprendere quante forme e contaminazioni diverse di jazz esistono? Ora non ci resta che aspettare la prossima edizione 2025, che dopo il successo di quest’anno, speriamo non deluda le aspettative – ormai molto alte.
Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.
Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.
New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF
Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico.
Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.
Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto.
Nell’ampia offerta concertistica raccolta da Torino Jazz Festival, Andrea Tofanelli e Riccardo Arrighini hanno proposto un concerto accattivante: giovedì 25 Aprile, presso l’Educatorio della Provvidenza, il duo ha offerto una performance coinvolgente, unendo le suggestive melodie di Puccini con la vivacità e il colore del jazz.
L’ispirazione per questo progetto è nata da Riccardo Arrighini che, con una profonda passione per il grande compositore, ha saputo rielaborare le armonie e le melodie pucciniane in chiave jazzistica.È stato chiesto ad Arrighini come è stato accolto dal pubblico questo connubio musicale per la prima volta: l’esperimento è stato presentato nel 2005 in Australia, durante il bis di un concerto jazz per solo piano. Il medley pucciniano ha ricevuto un estremo apprezzamento, «Venne giù il teatro» ha detto Arrighini. La reazione lo ha spinto a mettere a punto quella che all’epoca era una semplice idea.
Nel 2008, durante il centocinquantenario della nascita di Giacomo Puccini, Arrighini ha presentato gli arrangiamenti jazz in piano solo, ma sentiva il bisogno di qualcosa in più. «Volevo mettere qualcosa che più vicino potesse esserci a una voce, ma non volevo una voce lirica, non volevo una voce jazz. Volevo qualcosa che fosse un po’ il tutto», ha detto. Per poi continuare dicendo di aver trovato in Andrea Tofanelli (alla tromba) l’insieme di cui aveva bisogno: un musicista con una ferrea preparazione classica unita alla capacità di improvvisazione jazzistica, il tutto coronato da un notevole gusto melodico.
Il concerto è stato caratterizzato dalla straordinaria agilità con cui il duo ha eseguito le composizioni di Puccini, arricchendole con brillanti improvvisazioni. La capacità dei due di muoversi agilmente attraverso le complesse armonie e sfumature emotive delle melodie pucciniane ha dimostrato una profonda passione per il compositore. Notevole inoltre l’abilità del duo nel mantenere un equilibrio tra spontaneità e precisione rendendo l’ascolto piacevole e fluido.
Con piccoli interventi, aneddoti e pensieri, il concerto è durato circa due ore senza pause e ben poche presentazioni delle musiche, lasciando così fluire il susseguirsi dei brani: “Addio fiorito asil”, dalla Madama Butterfly, e il “Valzer di Musetta” dalla Bohème, hanno dato subito al pubblico un assaggio del coinvolgente concerto che ci attendeva. Arrangiamenti, a volte quasi riscritture, hanno arricchito i brani di Puccini. Tofanelli spiega: «La musica di Puccini, sembrava già pronta e paresse dire: aspetto solo qualcuno che mi tramuti in Jazz». Il “genio del male”, definizione amichevole con cui Tofanelli si riferisce ad Arrighini, ha preso l’aria “Vecchia Zimarra”, dalla Bohème, rivestendola di nuova importanza ed emozione. Il canto della tromba sul ritmo incalzante del pianoforte, ha reso questa musica simile ad una passeggiata adatta alla riflessione. Per dare una pausa alla tromba è arrivato un brano piano solo: l’arrangiamento dell’intermezzo di Manon Lescaut, che vive ancora con influenze wagneriane, di crescita e stasi. Superfluo dire che il talento rielaborativo del pianista ha incantato il pubblico, trasportandolo dalla giocosità di “Ma che gelida manina”, a una nuova atmosfera di un impetuoso pianoforte.
In chiusura è stato eseguito uno dei brani più belli di Puccini: il finale della Bohème, alla morte di Mimi. Tofanelli con la sua tromba unisce la melodiosità del canto con virtuosismi sulle scale e fraseggi di puro colore, creando un momento di raccoglimento attorno al canto di Mimi. Presentando un momento ludico di imitazione e “verso” l’uno l’altro, il duo si è spostato su un altro masterpiece di Puccini, l’intramontabile “Nessun dorma”, dalla Turandot, ovviamente senza far mancare i propri interventi di divertissement. La tromba trionfante ha intonato il culmine dell’aria “il nome suo nessun saprà…” sostenuto da un tremolo del pianoforte spingendo un forte crescendo, per poi andarsi ad addolcire sulla coda finale. wNell’ultimo brano proposto si è giocato molto anche con i timbri della tromba, dove Andrea Tofanelli ha dimostrato grande versatilità, usando sordine particolari per donare colori diversi al suo ottone.
Nel saluto è toccato anche al pubblico partecipare: battendo le mani a ritmo del pianoforte si è entrati nel groove e nel pieno spirito che ha accompagnato tutto il concerto. Un concerto senza dubbio apprezzato, applaudito e gioiosamente goduto, sia dagli intenditori che dai “profani” di entrambi i generi.
Puccini in jazz: la sua musica è in ottime mani.
a cura di Joy Santandrea
La webzine musicale del DAMS di Torino
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