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Don Karate al Bunker: tra maschere e groove camaleontici

Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live. 

Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce). 

La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo. 

Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria. 

I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato. 

Foto di Ottavia Salvadori

Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi. 

Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni. 

La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori. 

Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house. 

Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).  

Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo. 

L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin. 

Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale. 

Foto di Ottavia Salvadori

Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere. 

Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo. 

Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare. 

Marco Usmigli

Musica e poesia: inizia così il Torino Jazz Festival

«Libera la musica» è il tema della tredicesima edizione del Torino Jazz Festival (TJF). Provando a riformularlo, possiamo affermare che la musica libera orizzonti inauditi che percepiamo come esperienze catartiche; ma, considerando quel “libera” un aggettivo, possiamo pensare la musica come fenomeno umano indomabile, senza barriere, se non quelle che decidiamo di imporre o seguire.

A partire da questa seconda accezione cerchiamo di analizzare la produzione originale che TJF ha proposto come primo concerto della giornata inaugurale di mercoledì 23 aprile al Teatro Juvarra. L’evento, in collaborazione con il Salone del Libro, è stato presentato come un dialogo di suoni e silenzi tra la poesia e la voce di Domenico Brancale e la batteria preparata e amplificata di Roberto Dani.

Il primo ha già collaborato in passato con musicisti realizzando lavori con al centro la voce e suoni, spesso registrati, mentre il secondo ritorna al Festival dopo un’esibizione solistica nel 2021, che anche in quel caso ruotava attorno al silenzio, allo spazio e al corpo. Insieme hanno creato una performance dal titolo “Chi sono queste cose”: un incrocio tra reading poetico e improvvisazione musicale. 

Foto di Colibrì Vision 

Sul palcoscenico già aperto e illuminato di blu vediamo delle orecchie dorate sparse a proscenio, un leggio al centro e la batteria subito dietro. L’ingresso dei due artisti è silenzioso, al buio, nessun applauso, solo una voce registrata che elenca nomi di poeti, pittori, attori e musicisti del passato e le loro date di morte. Lo spazio scenico si riempie di luce calda e Brancale, con voce tonante, recita i versi su uno sfondo sonoro lento e meditativo. Dani si inserisce nelle pause tra un verso e l’altro, cambiando spesso il modo di produrre suoni: con bacchette diverse, piatti di varie dimensioni e oggetti comuni appositamente riadattati. La fusione tra la voce e i suoni delle percussioni è calibrata attentamente, l’amplificazione della batteria è regolata al continuo cambio di timbri, e al tono di Brancale che in alcuni momenti recita sotto voce. 

Foto di Colibrì Vision 

I due corpi sul palco vibrano in modo diverso: se Brancale, sempre fisso sul posto, ci trasmette passione e adesione al contenuto dei suoi versi attraverso la mimica facciale e alcuni gesti delle mani, Dani sta in piedi, curvato, in continuo movimento tra balzi e scatti frenetici. A dividere in due l’esibizione è un assolo energico di Dani, che riempie la sala di suoni profondi e sempre più ravvicinati, sembra quasi inaspettato dopo la prima parte molto pacata, ma riesce ad aumentare la tensione del concerto e guidarci fino alla conclusione.

Il ritmo si fa quindi incalzante, in un continuo singhiozzo di suoni gravi e acuti, Brancale elenca tutte le azioni e atteggiamenti possibili che compiamo nella nostra vita prima di sgretolarci.

Sta di fatto che anche la musica è uno di questi modi per sopravvivere e nelle conformazioni che può assumere rimane sempre libera e inafferrabile. 

Alessandro Camiolo

AleLoi & The Toxic Jazz Factory: Il Jazz rivive al Blah Blah

Il jazz, spesso etichettato come genere “vecchio” o fuori moda, dimostra di avere ancora molto da dire anche alle nuove generazioni. A testimoniarlo è la serata di giovedì 17 aprile al Blah Blah di Torino, con uno degli eventi gratuiti che anticipano il Torino Jazz Festival.

Appena AleLoi & The Toxic Jazz Factory salgono sul palco del piccolo club, infatti, la sala interna si riempie in un attimo, tanto che per i piú piccoli di statura diventa difficile provare a farsi strada per vedere qualcosa. Il suono degli strumenti si diffonde sotto i portici di via Po e, schiacciati in mezzo alla folla, si percepisce chiaramente una cosa: il jazz non è affatto passato di moda. Anzi, è più vivo che mai.

AleLoi & The Toxic Jazz Factory è un ensemble guidato da Alessandro Loi, bassista e compositore, che porta sul palco del Blah Blah il suo disco d’esordio It Smells Funny, dove il jazz, il blues, il gospel e il funk coesistono, creando un jazz raffinato e moderno allo stesso tempo.
Loi è accompagnato da un ensemble musicale composto da Simone Garino ai sassofoni, Alberto Borio al trombone, Nicola Meloni alla tastiera e Giulio Arfinengo alla batteria.

Foto dal profilo Facebook @AleLoi

Le sezioni d’insieme, energiche e coinvolgenti sono intervallate da assoli strumentali che mettono in luce la bravura di tutti i componenti del gruppo.
L’uso del basso elettrico fretless a 5 corde garantisce una maggiore flessibilità espressiva, particolarmente evidente nel brano inedito “Last Beer with Friends”, dove il timbro dello strumento viene ulteriormente arricchito da un distorsore.

Nota di merito anche  per il sassofonista e il trombonista che, nei momenti collettivi, rivelano con una tale sintonia da far percepire in certi istanti un suono unico, nonostante la notevole differenza timbrica tra i due strumenti.

Il concerto è durato circa un’ora: forse troppo corto per gli appassionati, ma perfetto per chi desidera avvicinarsi al jazz in modo leggero, passando una piacevole serata tra drink, chiacchiere tra amici e buona musica. Un evento piacevole e ben riuscito, che mette il jazz al centro, ma che non ne “impone” l’ascolto attento prolungato.

Marta Miron

Anteprima Torino Jazz Festival: Marmellata Jam al Comala

Al Comala il 16 aprile 2025 si è tenuta la Marmellata Jam, esibizione completamente improvvisata (o quasi). Per l’organizzazione della serata, il collettivo Marmellata Jam ha optato per l’utilizzo di un canale su Telegram, nel quale chi voleva partecipare ha avuto modo di iscriversi per facilitare la ripartizione dei tempi e degli spazi di chi avrebbe improvvisato durante la serata.

L’esibizione era programmata all’esterno ma a causa della pioggia, si è tenuta in una saletta interna. 

La serata è stata divisa in due parti: la prima focalizzata sulla lettura di poesie con libero accesso da parte di persone dal pubblico, con sottofondo musicale improvvisato e disegni proiettati realizzati sul momento.
Nella seconda parte, è stata privilegiata la parte musicale, sempre con un libero accesso al microfono, all’iPad per disegnare e soprattutto, questa volta, agli strumenti.

Foto di Giulio Santullo

Si sono susseguiti innumerevoli cantanti e strumentisti, da alcuni nomi noti della scena torinese, come la cantante Caterina Ciari degli EDEN4ALL , ai meno conosciuti, i quali hanno sperimentato improvvisando attraversando i generi.

La serata si è conclusa verso mezzanotte ed è stata un grande successo nonostante il nubifragio in corso.

Degna di nota è stata la poesia di Viola Cicoria, la quale ha tenuto sospeso il pubblico:

”Salve. Salve, dunque di quale cifra si tratterebbe? Ah. E per quanto tempo? Dunque, per una settimana? Per una settimana, bene, me lo assicura? Cento milioni per una settimana. Mi assicura, dunque, che la luna si spegnerà per una settimana. Una settimana di luna spenta per cento milioni.

Sì, sì, siamo d’accordo. Sì, proceda pure. Sì, la spenga.

Prima notte di luna spenta: ma perché nessuno ci fa caso? Ha senso che nessuno ci faccia caso. Una volta al mese succede. Soltanto in pochi, in pochissimi, in così pochi nel mondo che li si potrebbe tutti stipare in uno di quegli autobus inglesi rossi a due piani, se ne sono accorti.

Foto di Giulio Santullo

Prima notte di luna spenta, un normale cielo blu (quasi) per tutti.

Seconda notte di luna spenta: qualcuno ci fa caso. Non dovrebbe crescere la luna? Prima o poi, non dovrebbe crescere? No, ma dico, oggi non dovrebbe crescere la luna? E se non crescesse mai più?

[…]

Quarta notte di luna spenta: più di più di qualcuno ci fa caso. È un guaio. Signore, signori, è un guaio. E gli astronauti di che si occuperanno ora? E cos’altro possiamo misurare se non la distanza tra qui e là? Ora che si fa? E chi costruisce i razzi? E chi cuce le tute degli astronauti? E le aste delle bandiere dove verranno piantate? E le foto? E il Paese? Quanto spenderemo per i lampioni? E perché nessuno costruisce astronavi intergalattiche?

[…]

Sesta notte di luna spenta: tutti (o quasi) ci hanno fatto caso. E i misteri? E gli dèi? E Dio? E l’amore? E l’amore, vi prego, l’amore? E le idee? Ma dico, le idee? Sono duemilaquattrocento anni che stanno da un’altra parte, lì, mentre noi le copiamo, non è che di punto in bianco si può fare così. E dove dovrei camminare ora? Con i piedi piantati in terra? Dovrei camminare sulla Terra? E dove dovrei sognare? Come dovrei sognare? A cosa, a chi dovrei dedicare? E dove, come, quando, perché dovrei dedicare ora che la luna è spenta? Quali luoghi dovrei abitare? Dove dovrei vivere? Dove potrei essere? E il mio fine quale sarà?

Settima notte di luna spenta: poveri conigli, son scomparse tutte le loro tane.

Settima notte di luna spenta, il cielo è blu.

E lei ci pensa mai a quante cose abbiamo proiettato lassù?”  

Maria Scaletta

Anteprima Torino Jazz Festival: High Fade in concerto a Spazio211

Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).  

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme. 

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.


Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.

Alessandro Camiolo

Torino is not dead: Sacrofuoco e release party dei Low Standards, High Fives

Un sabato tutto torinese quello del 5 aprile 2025 al Magazzino sul Po, grazie ai Sacrofuoco (prima One Dying Wish) e l’atteso release party dell’ultimo album dei Low Standards, High Fives Everything Ends, il tutto organizzato dal collettivo Turin Moving Parts.

Le due band sono molto diverse: i Sacrofuoco, con una commistione di chitarre dissonanti e urla distorte e ossessive, fanno un hardcore incalzante che tiene il pubblico in subbuglio e non fa riposare.

Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)

La setlist contiene sia canzoni del loro ultimo album Anni Luce, il primo sotto l’identità Sacrofuoco, sia canzoni uscite sotto il nome di One Dying Wish. Queste ultime sono quelle più conosciute e che nel corso della serata causano diversi momenti in cui qualcuno “ruba” il microfono per urlare le parole del testo, in un completo coinvolgimento tra musicisti e pubblico. 

I brani di Anni Luce ci portano invece in un mondo caotico e immersivo, soprattutto quelli dalla durata maggiore come “Replica” e “Corpi Celesti”.

I Low Standards, High Fives, nati ormai più di 10 anni fa nel lontano 2012, riprendono le sonorità nostalgiche dell’emo di inizio anni 2000. Con le loro tre chitarre lavorano su melodie accoglienti e riconoscibili all’interno del genere, ma mai banali.

Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)

Everything Ends, uscito il 28 marzo, ci fa contemporaneamente compiere un viaggio di vent’anni nel passato e riscoprire di qualcosa di nuovo all’interno di temi e suoni che ci sono tuttavia così familiari, unendo influenze personali come indie e post-rock al classico sound che si può ascoltare nei gruppi, soprattutto esteri, che sono stati pionieri dell’emo dalla fine degli anni ‘90.

Per questa serata il Magazzino sul Po è sold out, dimostrando che le band dell’organismo torinese sono ancora e sempre supportate e amate dal pubblico della città, in una relazione di sostentamento reciproco che mantiene la scena in vita.

Enea Timossi

Senegal: i 65 anni d’Indipendenza a ritmo di musica

Rispettare l’orario d’entrata previsto per un concerto può risultare una scelta azzardata e a volte anche noiosa. Nelle lunghe attese si può rischiare di incollare gli occhi al piccolo schermo che ci troviamo sempre in tasca e perderci totalmente ma, se si resiste alla tentazione, l’arrivo in anticipo può trasformarsi in un’occasione per osservare le persone che entrano nel locale. Infatti, tra i coloratissimi vestiti tradizionali senegalesi e piccolissimi bambini che correvano a destra e sinistra, la serata all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 4 aprile si è aperta con tanta allegria. L’evento ha avuto il sapore di una vera festa, organizzata per celebrare il 65° anniversario dell’indipendenza del Senegal dal colonialismo francese, durato oltre tre secoli.

Per l’occasione, l’Associazione Africaqui e l’Associazione Culturale Tamra, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, hanno dato vita a un evento musicale che vuole essere anche simbolo di cooperazione tra Torino e Louga, città senegalese nel Nord-Est del paese, gemellate ufficialmente nel 2024.
La serata è iniziata con gli Afrodream, gruppo afrobeat, seguito dalla cantautrice senegalese Mariaa Siga. Subito dopo, l’esibizione dell’Orchestra dell’Africa Subsahariana e un dj set a cura di Dj Noname per chiudere.

Foto dal profilo Instagram @afrodream_ foto didi Lorenzo Gianmario Galli

Alle 22 circa la musica ha iniziato a risuonare in tutta la sala dell’Hiroshima con ritmi incalzanti che hanno fatto ballare anche gli spettatori meno avvezzi al movimento. Gli Afrodream sono nati a Torino, e il loro cantante e percussionista Abdou Samb ha origini senegalesi. Grazie alla fusione tra musica europea e senegalese hanno creato un ambiente accogliente per tutti. C’è stata una piccola interruzione dovuta alla corda del basso che si è rotta proprio in mezzo alla performance ma, oltre a questo piccolo intoppo, tutto è filato liscio come l’olio.
La band ha ottenuto un grande successo da parte del pubblico ma l’affluenza in sala ha subito un calo significativo con l’arrivo di Mariaa Siga, artista meno conosciuta rispetto agli Afrodream. Cantautrice dalle straordinarie doti vocali, Mariaa incanta con una voce potente e al tempo stesso delicata, capace di spaziare su un’estensione vocale notevole. Ha dedicato le sue canzoni principalmente a coloro che hanno sofferto, come i molti dispersi in mare nella speranza di raggiungere una vita più dignitosa in Europa e non solo. Una dedica speciale è stata fatta alle donne, in una giornata in cui, in Piazza Castello, in centro a Torino, si è svolta la manifestazione organizzata in risposta ai recenti femminicidi, tra cui quelli di Ilaria Sula e Chiara Campanella.
Finale con una canzone in onore della  sua madrepatria, il Senegal, con un pubblico finalmente molto più acceso.

Foto dal profilo Instagram @mariaasiga

L’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha dato di nuovo il via alle danze, scatenando tutta la sala. La loro scelta strumentale è particolarmente interessante poiché combinano strumenti tradizionali del Centro Africa, come la kora e il djembe, con una varietà di percussioni, elettronica e un sax, che si fonde perfettamente con gli altri elementi.
Tra le parti cantate sono emersi momenti virtuosistici dei percussionisti e soprattutto del suonatore di kora. Sul palco sono stati fatti entrare anche di tanto in tanto dei ballerini che hanno creato uno spettacolo veramente esaltante.
Per il gran finale, l’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha invitato sul palco Mariaa Siga e alcuni membri di Afrodream per eseguire insieme “Fatou yo”, un brano senegalese per bambini che sembra assumere un significato profondo per tutti: un finale sia maestoso che commovente, anche per chi non conosce pienamente la cultura del paese festeggiato.
Il dj set conclusivo ha permesso chi aveva ancora energia di continuare a ballare. 

Una festa indimenticabile che ha saputo intrecciare tradizione e modernità, regalando a tutti i presenti un’esperienza unica.

Marta Miron

La dama di picche: il destino in tre carte

Seduzione, ossessione e un destino ineluttabile. La dama di picche. Capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest, tratto dall’omonimo racconto di Puškin. L’opera, composta nel 1890, segna uno dei vertici espressivi del teatro musicale russo. Il compositore, in uno dei momenti più tormentati della sua vita, infonde nella partitura un’intensità drammatica e anche cinematografica, avvicinandosi alla tragica ossessione del protagonista Hermann, consumato dal gioco d’azzardo e dalla misteriosa formula segreta delle tre carte. Questo tormento prende forma nell’aria “Che cos’è la nostra vita? Un gioco!”, in cui il protagonista ripete ossessivamente il suo pensiero fisso.

La dama di picche è in scena al Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento prodotto dalla Deutsche Oper di Berlino, firmato dal regista Sam Brown, che raccoglie e sviluppa la visione del compianto Graham Vick. La direzione musicale è affidata a Valentin Uryupin, specialista del repertorio russo, mentre il cast vede protagonisti Mikhail Pirogov nel ruolo di Hermann, Zarina Abaeva in quello di Lisa e Jennifer Larmore nei panni della Contessa. Completano la compagnia Elchin Azizov (Tomskij), Vladimir Stoyanov (Eleckij) e Deniz Uzun (Polina).

foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz

La regia di Sam Brown presenta Hermann come un uomo qualunque, intrappolato in una realtà soffocante e monocorde. La sua esistenza, confinata in un dormitorio militare, è lo specchio di un desiderio frustrato di riscatto sociale. Lisa, il suo amore impossibile, incarna il contrasto tra il mondo del privilegio e la disperazione del protagonista, che cerca una via d’uscita nel segreto della Contessa. L’opera si trasforma così in un dramma psicologico in cui sogno e realtà si sovrappongono, portando Hermann verso un destino segnato dall’illusione e dalla follia. Lo spettatore col dubbio su cosa fosse reale.

L’allestimento si distingue per alcuni elementi visivi di grande impatto. Il coro, attraverso un gioco di ombre, si trasforma in una folla minacciosa, amplificando la paranoia e il senso di accerchiamento. Un ulteriore livello narrativo è dato dalla la proiezione di spezzoni del film La dama di picche del 1916, che dialogano con la messinscena come un secondo piano narrativo. A completare questa dimensione visiva, sopra il sipario utilizzato per i cambi scenografici appaiono dei veri e propri cartigli, in stile cinema muto, che forniscono  un contesto alla scena o indicavano il luogo in cui si svolgeva l’azione.

foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz

In molti di questi cartigli comparivano anche citazioni da Dostoevskij, che aprivano ulteriori riflessioni. Lo spettatore più attento poteva così interrogarsi su ciò che vedeva: era tutto reale? O solo una proiezione dell’inconscio di Hermann? Era solo la caduta di un uomo nell’ossessione, o una riflessione più ampia sulla libertà individuale, la colpa, la coscienza? La presenza di Dostoevskij da lo spunto per guidare lo spettatore in un percorso parallelo, rendendolo forse più partecipe e consapevole di ciò che vede.

Scenografica la chiusura dell’opera. Hermann, ormai consumato dal pensiero ossessivo delle tre carte, si presenta al tavolo da gioco. Sebbene non sia un giocatore abituale, possiede esattamente tre carte, come predetto dalla dama di picche. Le prime due gli fanno vincere somme enormi, ma l’avidità – o forse il desiderio disperato di vedere la profezia compiersi fino in fondo – lo spinge a giocare anche la terza. A quel punto entra il principe Eleckij, l’unico disposto a sfidarlo. Ma nel momento decisivo, Hermann scopre che la sua ultima carta non è l’asso, bensì proprio la dama di picche. Ha perso tutto. E si toglie la vita.

Piccola nota di cronaca: durante il primo atto un semplice cambio di scenografia ha dato a molti spettatori l’illusione dell’intervallo, con tanto di esodo verso il foyer sventato dalla solerzia delle maschere. Tutto comprensibile vista la scarsa conoscenza di un titolo, che tuttavia è stato molto apprezzato a fine serata.

Questo allestimento di La dama di picche si è rivelato una produzione di grande impatto visivo, moderna ed emotiva. La regia di Brown ha offerto una prospettiva che mette in luce l’attualità del dramma umano di Hermann, sempre sospeso tra desiderio e autodistruzione.

Joy Santandrea

Vengerov e Osetinskaya: il suono come dono e maestria

L’Unione Musicale ci ha fatto un regalo prezioso la sera del 26 marzo, portando sul palco del Conservatorio «Giuseppe Verdi» uno dei musicisti più importanti a livello globale, Maxim Vengerov, di origine russa, che fin da bambino si è messo in luce come violinista. In questa serata è stato accompagnato al pianoforte dalla pianista Polina Osetinskaya, la quale condivide con il violinista non solo le origini russe, ma anche il talento mostrato sin da piccola.

Osservando il pubblico accomodarsi, si percepiva l’attesa: si potevano notare subito, sul palco, le custodie dei violini,come una muta promessa di quello che stavamo per ascoltare. Infatti, i due musicisti, al loro ingresso, sono stati accolti calorosamente con un lungo applauso.

Il concerto è stato aperto dalle Cinque melodie op. 35 bis di Sergej Prokof’ev. Dal primo attacco di Vengerov si è rimasti subito colpiti: un suono deciso ma allo stesso tempo dolce, che ha dato dimostrazione immediata della tecnica acquisita negli anni. Le Cinque melodie, però, erano soltanto l’antipasto. Nella Sonata n° 2 in re maggiore, op. 94 bisdello stesso compositore abbiamo assistito a qualcosa di unico. Nel secondo movimento, Scherzo. Presto, entrambi i musicisti hanno dato il meglio di sé: si percepiva il divertimento nel suonare questo brano. La pianista si muoveva a tempo di musica per accompagnare Vengerov e, per la carica di un fortissimo, ha anche sobbalzato sullo sgabello. Il movimento è stato eseguito con tale perfezione da scatenare un applauso vigoroso, fuori dalle normali consuetudini dei concerti cameristici e sinfonici (nei quali l’applauso è consentito solamente alla conclusa del brano), ma doveroso vista la perfezione della performance. La sonata si è conclusa ovviamente in modo impeccabile: ogni sfumatura delle dinamiche è stata eseguita in modo eccezionale, tra sorrisi accennati e precisione reciproca.

foto da Unione Musicale

La prima pausa del concerto è servita al pubblico per assimilare l’euforia e lo stupore nato da quello a cui avevano appena assistito. Il concerto è poi proseguito con la Sonatina in sol minore, op. 137 n° 3, D. 408 di Franz Schubert: un inizio forte e all’unisono, come scaturito dal primo respiro intenso del violinista che si è sentito fino alle ultime file della sala. Balzi dell’arco precisi, che nel secondo movimento si sono trasformati in un canto legato nato dal pianissimo: sembrava che i due musicisti stessero parlando tra di loro attraverso gli strumenti con estrema naturalezza.

La Sonata n° 3 in re minore, op. 108 di Johannes Brahms ha concluso il concerto, facendo già affiorare il dispiacere perché la serata volgeva al termine. Ad amplificare la sensazione ci ha pensato il secondo movimento, Adagio con la sua soavità venata di tristezza. Il suono di Vengerov era completamente legato: sembrava che l’arco non avesse inizio e fine per come riusciva a non staccare i suoni, facendoli continuare anche attraverso le doppie corde e trilli malinconici. Il Presto agitato ci ha riportato alla realtà. La pianista Osetinskaya, quando veniva richiesto il forte, ci metteva davvero tutta se stessa e Vengerov rispondeva con la stessa audacia.

foto da Unione Musicale

Vengerov e Osetisnskaya ci hanno regalato ben quattro bis, preceduti anche da un «grazie mille» nell’italiano impacciato del violinista russo. Eravamo noi a dover ringraziare, per quanto avevamo appena ascoltato e per ciò che stavamo per ascoltare. I primi tre bis sono stati Schön RosmarinLiebesleid e Liebesfreud di Fritz Kreisler e anche qui, in tutti e tre i brani, era impossibile non ammirarlo: siamo infatti stati avvolti da un fraseggio elegante e una cantabilità travolgente.

L’ultimo bis è stato un brano davvero emozionante di Rachmaninov, tratto da Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43: Variazione n° 18, Andante cantabile. Qui i due musicisti sono entrati in un altro universo: il vibrato di Vengerov è riuscito a scuotere gli animi, con una dolcezza, un’esplosione di suono che trasmette sia energia che malinconia, come solo lui sa fare.

Con i presenti visibilmente emozionati si conclude questo concerto. Sicuramente, quanti fra il pubblico erano violinisti o musicisti in generale sono tornati a casa con un bellissimo ricordo, ma anche con una lezione: se ha colpito il modo in cui Vengerov maneggia l’arco ed esegue passaggi tecnicamente complessi con estrema naturalezza, dando l’impressione che siano facili, forse più ancora ha impressionato l’umiltà con cui si è presentato sul palco. Non tutti, peraltro, avrebbero la generosità di offrire quattro bis, nonostante la grande fama che li precede.
Vengerov ci ha ringraziato sempre con un sorriso, mentre era lui a donarci, per una sera, il suo suono inimitabile. 

Francesca Modoni

Il nuovo singolo di La Posa Bulb: “Fine del mondo”

La Posa Bulb, band emergente di Civitavecchia, debutta sulla scena musicale italiana il 21 marzo 2025 con il singolo “Fine del mondo” che anticipa l’uscita del loro primo album. Il nome della band richiama una tecnica fotografica che cattura il soggetto in movimento mantenendo lo sfondo fisso, un concetto che si riflette perfettamente nella loro musica.

Il gruppo è composto da Lorenzo Ceccarelli, Diego Tranquilli e Fabrizio Campogiani: personalità differenti che arricchiscono il progetto con influenze che spaziano dal rock all’indie, riuscendo a creare un sound originale.

Il singolo non racconta di una fine catastrofica, ma propone una riflessione sulla consapevolezza della realtà. Sebbene il titolo evochi l’idea di un epilogo, in realtà è una «presa di coscienza» di fronte ad un presente incerto, come la definiscono gli stessi membri della band. 

Nel verso «E anche se domani tutto finirà, no non sarà per colpa tua» emerge il tema della disillusione e dello smarrimento vissuto da molti giovani. La struttura musicale caratterizzata da un inizio delicato che sfocia in un crescendo, rappresenta un viaggio nell’emotività umana, simboleggiando il confronto con la realtà.

“Fine del mondo” è solo un assaggio del loro primo album, ma già mette in luce una band capace di esplorare temi profondi. Chi si avvicina a loro troverà una voce distintiva nella scena musicale italiana.

Benedetta Vergnano